Ho una confessione da fare: il gruppo di cui seguirà l’intervista è uno dei miei gruppi preferiti in assoluto; di quelli che ascolto sempre, sempre, sempre: quando sono triste, quando sono felice, quando sono in macchina, prima degli esami universitari… Il Muro del Canto.
Il gruppo romano ha all’attivo tre album: L’Ammazzasette (2012), Ancora Ridi (2013) e Fiore de niente (2016). Proprio in occasione dell’uscita dell’ultimo disco ho avuto il piacere di intervistare Daniele Coccia, cantante e autore dei testi de Il Muro del Canto. Il gruppo è un complesso di musica popolare romano; dove “musica popolare” non va inteso nell’accezione di mazurke e scatenatissimi valzer a coppia delle sagre di paese, ma nel senso di musica del popolo, musica e brani che trattano temi in cui si riconoscono in molti, che spesso sono coloro che non hanno voce. E non può esistere musica popolare senza l’uso del dialetto, in questo caso il romano.
Da dove viene il vostro nome? È un omaggio all’omonima canzone della Bandabardò?
Abbiamo conosciuto il loro brano dopo aver scelto il nome che nasce dal gioco di parole con il Muro del Pianto.
Come è nato Fiore de niente?
Fiore de Niente è venuto fuori senza nessuna fretta, ci siamo presi tutto il tempo di cui avevamo bisogno. Giancarlo Barbati, il nostro chitarrista, ha fatto un eccellente lavoro dietro al mixer. Come era successo con L’ammazzasette ci siamo raccolti intorno al banco e abbiamo registrato il disco esattamente come volevamo.
In che modo si è evoluta la vostra musica dagli inizi fino a Fiore de niente?
La cosa che ci preme di più è cercare di mantenere quelle che sono le nostre caratteristiche distintive senza ripeterci mai. La nostra musica si è evoluta nel feeling che c’è tra uno strumento e l’altro e nella riconoscibilità sempre maggiore dei nostri arrangiamenti.
C’è un brano che non eravate convinti di mettere nel disco e che poi, invece, si è rivelato essere giusto per l’album?
Non esattamente. C’erano dei brani che eravamo assolutamente convinti di mettere e che poi abbiamo scartato. L’anima de li meglio invece, faticava ad avere una forma, avevamo quasi deciso di abbandonarla ma un giorno, per caso, abbiamo provato a rimetterci le mani e in un battibaleno è uscito uno dei brani che ci uniscono ed emozionano di più.
Nei vostri testi c’è sempre un qualche tipo di sofferenza (infamia subìta; lavoro e padroni che opprimono; educazione cattolica molto bigotta; abusi in divisa…) ma c’è sempre una strada per riscattarsi (la lotta sociale; il ricordo di chi resta…); ascoltando Fiore de niente ho avuto l’impressione che, rispetto ai testi precedenti dove trovavamo comunque questa dualità sofferenza/liberazione, indichino la strada verso il riscatto con più positività. E’ così o c’è, semplicemente, più rassegnazione nel constatare che le situazioni sociale, lavorativa e politica vadano sempre peggio?
Mi fa piacere che tu abbia notato il nostro forte desiderio di riscatto. La situazione sociale/culturale/economica è certamente surreale e disarmante, ma non bisogna farsi travolgere in basso dalle sensazioni negative. Le persone danno il loro meglio nella difficoltà e sono tanti quelli che hanno la fronte alta e la ferrea volontà di godere pienamente della vita.
Mi colpisce molto, dei vostri live, che sul palco siete tutti vestiti di nero, questa cosa ha un impatto scenico molto forte; da dove è nata la decisione di proporvi così sul palco?
Io ho sempre vestito solo in nero da quando ero poco più che ragazzino, non so vedermi con i colori addosso: quando provo ad osare e mettere un capo colorato mi sembra di essermi dimenticato il pigiama addosso. Entro in ascensore, mi guardo e torno subito a casa per cambiarmi. Al primo concerto che facemmo con il Muro del Canto, ci domandammo come dovevamo vestirci, io proposi dei cappelli e il nero integrale; in realtà dissi che dovevamo vestirci come per andare a un funerale gitano. Non so se c’è attinenza, ma il risultato fu circa quello che ora è il nostro stile.
Il fatto di cantare in romano è stato mai un limite?
Mai; scrivere in Romano è stata una grande liberazione espressiva, una delle scoperte più esaltanti che abbia fatto nella mia vita. Il dialetto romano per noi non è stato mai un limite, ma un’arma in più.
Leggendovi sui social e vedendovi ai concerti, sembrate avere un rapporto molto forte con il vostro pubblico. Come è nato?
Abbiamo un pubblico davvero eccezionale e siamo davvero affezionati a tutti. Ci piace avere un rapporto diretto, sincero e senza filtri con tutti. Siamo davvero felici di vedere come persone di tutte le età si trovino insieme davanti al nostro palco a condividere le nostre stesse emozioni.
Come nascono i brani de Il Muro del Canto?
I brani nascono da un testo, come da un motivo di fisarmonica, da un giro di chitarra o da un racconto. Ci incontriamo in sala prove e spesso dopo un paio d’ore abbiamo già una canzone con una forma quasi definita. Altre volte ci capita di dover combattere per tirare fuori quello che vogliamo. Cerchiamo sempre di averla vinta noi e fortunatamente siamo sei testardi.
Rispetto al gruppo avete un progetto parallelo dedicato ai canti della tradizione anarchica italiana (il Canzoniere Montelupo di cui fanno parte Daniele, Eric ed Alessandro M.) e Giancarlo ha il progetto solista Giancane: vi è mai capitato di usare dei brani che non potevano finire nei lavori del Muro per questi progetti?
È successo il contrario: Figli come noi è una canzone che abbiamo scritto per i Montelupo e che in seguito abbiamo messo nel nostro repertorio. Ci sembrava un brano ed un tema, quello degli abusi in divisa, che doveva essere cantato a squarciagola da più persone possibili.
(Figli come noi è legato a doppio filo all’associazione ACAD che da anni è accanto alle famiglie delle vittime e a chi ha subito abusi in divisa, un piccolo ma concreto impegno di lotta al fianco di chi ha subito abusi da parte delle forze dell’ordine, ndr).
Giorgia Molinari
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