I Fuzz Orchestra tornano a far parlare, bene, di sé: Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi  è il titolo del loro ultimo album, una fotografia lucida e ideologica dell’attuale momento storico vissuto da tutti noi. Un’intervista decisamente interessante che vi consigliamo di non perdere! Buona lettura!
 
Il vostro nuovo album in uscita l’11 Marzo 2016 per Woodworm, ha un titolo che non può non destare curiosità: lo avete definito il disco dell’Apocalisse: siamo curiosissimi di conoscere tutti i dettagli in merito a questa affermazione!
Fiè: Ad ogni disco della Fuzz Orchestra è sottesa un’idea di riferimento da cui dipendono i vari elementi che lo costituiscono: titolo, grafiche e, naturalmente, la scelta dei campioni audio che formano il livello testuale e narrativo. Nel nostro ultimo disco abbiamo trattato il concetto di Apocalisse. Non il disco dell’Apocalisse quindi, ma un disco sull’Apocalisse. Siamo partiti dal significato letterale del termine greco: scoperta o disvelamento ed anche – da quando il termine entrò nel vocabolario dell’antico cristianesimo – Rivelazione (della natura divina del reale) e giorno del Giudizio. Ulteriore significato – ben più moderno – è quello di evento catastrofico, da intendersi anche come cesura inevitabile nel normale procedere della linea temporale e quindi di un “nuovo inizio”. Tornando a noi, non c’è certo bisogno di una “Rivelazione” né di scomodare la sfera del “divino” per comprendere che oggi viviamo in una situazione che non possiamo non definire apocalittica. Non c’è giudizio in questa affermazione, ma semplicemente la constatazione, il riconoscimento e la descrizione di questa fase di un “movimento” più ampio. Nell’antica tradizione induista questo momento, ovvero la nostra epoca, veniva chiamato Kali Yuga, tradotta come “età del ferro” nella tradizione greco-occidentale; altra definizione – quella a cui sono più legato – è quella di “regno della quantità”, i cui sovrani sono materialismo, scienza, progresso: guai a chi osa metterli in discussione! Però i nodi vengono al pettine non appena ci si soffermi a guardare il mondo che ci circonda: ci viene promesso un Eden tecnologico che si rivelerà un vero e proprio Armageddon. Ripeto: non c’è giudizio in questa affermazione e soprattutto non c’è “pessimismo”, solo la consapevolezza del sapere “dove ci troviamo” ed agire di conseguenza, mettendo in atto delle nostre personali resistenze che ci permettano di “rimanere in piedi in un mondo di macerie”.   
Da quanto tempo suonate insieme? C’è qualche aneddoto sulla vostra storia che ricordate in particolare?
F: L’attuale formazione si è formata nel 2011 quando Paolo (Mongardi) ha sostituito Marco (Mazzoldi) dietro le pelli. Marco decise di abbandonare perché aveva bisogno di tempo per dedicarsi alla nascita di sua figlia, la prima delle future “sorelle Mazzoldi”, tempo che scarseggia facendo parte di una band che macina circa un centinaio di concerti all’anno. Con Paolo l’intesa è stata immediata sui tanti livelli che compongono il corpus di una band: quello musicale, progettuale e soprattutto quello umano. Ogni band accumula naturalmente centinaia di aneddoti durante il suo percorso: storie di immani fatiche e grandi soddisfazioni, viaggi improponibili e luoghi incredibili, episodi surreali, poetici e divertenti così come situazioni difficili, pesanti, a volte – ahimé – persino tragiche. Purtroppo non sono io il vero esperto di aneddoti della Fuzz Orchestra, essendo Paolo ben noto in tutta Europa per i suoi “boring aneddoti”. Una delle situazioni che più mi piace durante la vita in tour è quando in certe serate, con certe persone, amici vecchi e nuovi, finiti i concerti, ad ora tarda, parte la sequenza di aneddoti e storie: una specie di “racconti intorno al fuoco” stile boy-scout, ma con l’aggiunta di canne, birrette e grasse e sonore risate. Non sono un bravo scrittore e davvero non saprei rendere quell’atmosfera particolare che si crea: certe cose poi è meglio che rimangano legate alla tradizione orale. 
Come definireste le vostre sonorità se doveste usare tre aggettivi?
F: Non ho assolutamente il dono della sintesi e non amo molto le definizioni. Preferisco di gran lunga le metafore. In particolare me ne ricordo una utilizzata in una recensione del nostro secondo disco (ma non ricordo da chi né su quale rivista/webzine) per descrivere il nostro lavoro: “Fuzz Orchestra è una macchina da combattimento scesa sulla Terra per distruggere la musica inutile”. Mi piace per un semplice motivo: mentre posso capire la “musica brutta”, dal momento che si entra nel campo del soggettivo, dell’individuale, del gusto/storia personale, non provo alcuna pietà verso la “musica inutile”, categoria purtroppo non rara al giorno d’oggi. Si potrebbe obiettare che anche gli standard per classificare una musica X come inutile rientrino nel campo del soggettivo, ma – recita un antico proverbio cinese – la merda è merda. E tale rimane pur piacendo a tanti.  
Alla materia musicale si sovrappone un livello narrativo costruito attraverso campioni audio provenienti per lo più dal cinema socio-politico italiano degli anni ’60 e ’70: spiegateci meglio questa vostra metodologia creativa
 F: Alla base c’è un esperimento: rimanere una band strumentale ed allo stesso tempo poter utilizzare il potenziale concettuale, narrativo ed espressivo proprio di un testo. L’idea di utilizzare campioni audio per realizzarlo nasce invece  da una limitazione. Il seminale testo “The Can book” recita: “limitation is the mother of creation”. Nel mio caso la “limitazione” è stata la consapevolezza di non avere il talento per scrivere e/o interpretare testi. Ho anche dei modelli – e quindi standard – molto alti: De André su tutti. La “creazione” è stata quella di applicare ed utilizzare le mie buone capacità di studente/ricercatore al posto delle mie scarse doti di autore/interprete per ottenere quello che avevo in mente. La cinematografia italiana degli anni ’60 e ’70, che ho sempre considerato una vera e propria “età dell’oro” della storia creativa del nostro paese, mi ha fornito una sterminata libreria da cui poter attingere, per la sua qualità come per il suo essere ancora attuale nell’analizzare e descrivere la nostra contemporaneità. Questo mio lavoro di ricerca e poi di selezione si basa su alcuni postulati:  ho evitato di utilizzare film che amo ma che ritengo troppo noti, sposando quindi un’ottica di “riscoperta” e “divulgazione” di capolavori spesso sconosciuti e/o misconosciuti. C’è naturalmente un’ottica musicale nella selezione e successivo montaggio dei campioni audio da me “rubati” che devono sposarsi a livello ritmico e tonale con la materia musicale. C’è anche una questione “sonora” molto discriminante rispetto allo scegliere o scartare un determinato campione audio, ovvero il suo dover essere adeguato al nostro stile ed alla nostra estetica musicale che rimangono con i piedi ben piantati nel terreno dell’heavy rock. È un processo iniziato come un esperimento e diventato poi un mio personale linguaggio e tecnica “musicale”; mi coinvolge, stimola e diverte ancora oggi portare avanti questo esperimento, non tanto per i risultati – che saranno altri a giudicare – ma per il processo in sé: e questo mi basta ed avanza.
Cosa rappresenta il simbolo raffigurato in copertina?
F: Viene chiamato nodo – o fiore – dell’Apocalisse, è un antico simbolo cristiano e derivante quindi, come tutta la simbologia delle tre religioni monoteiste, da dottrine  e tradizioni spirituali ad esse precedenti. È una figura a base quadrata ma composta da cerchi, inserendosi quindi nella simbologia della “quadratura del cerchio” – ovvero del passaggio dalla dualità all’unità. Può anche essere interpretato come una rappresentazione del cosmo, equivalente quindi ai mandala della tradizione buddista ed agli yantra di quella induista: il cerchio interno rappresenta il mondo manifestato o fisico, quello esterno il mondo dei principi o metafisico, i semicerchi che formano i 4 petali simboleggiano i 4 elementi che tutto pervadono ed uniscono (anche qui dalla dualità all’unità). Nelle grafiche che completano i nostri lavori mi piace adottare lo stesso principio usato con gli spezzoni dei film: prendere qualcosa di già “creato” e “tradurlo” in un nostro proprio linguaggio, affinché diventi davvero qualcosa di davvero “nostro” pur mantenendo anche il significato originario.
Un’ultima curiosità: il disco è accompagnato da una specie di preghiera, un auspicio, in cui affermate che l’unica speranza per il futuro del mondo è “…l’uomo del disordine”. A cosa vi riferite?
 F: La frase esatta finisce con “l’uomo NEL disordine” ed è tratta da “Pasqualino Settebellezze” [1976] di Lina Wertmüller: un vero capolavoro. Viene pronunciata da un personaggio del film a cui sono molto affezionato, ovvero ”l’anarchico fallito” interpretato da un grande Fernando Rey. Pensai che quella frase fosse perfetta per la tematica del nostro disco perché pur partendo da un’analisi crudamente realistica del reale, l’esaurimento delle risorse naturali, offriva una ricetta che si spostava dal piano dell’azione socio-politica a quello di un percorso personale di crescita, coscienza e consapevolezza: l’uomo nuovo è quello che saprà “ritrovare l’armonia dentro di sé” nonostante il “disordine” e le “macerie” che lo circondano.  Pensare di cambiare il mondo senza cambiare prima se stessi è come voler cambiare la forma di un’ombra senza modificare il corpo che la proietta: un’illusione che non può che condurre al fallimento e che, nel suo fallire, non può non generare aberranti mostruosità. Sia maledetto l’Illuminismo!
 
 a cura di Laura De Angelis
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