Venerdì 26 febbraio 2016, Bologna. Interno, sera. La scelta che mi si para davanti è di quelle difficili: non uscire, tenere a bada la febbre mantenendo un profilo basso con un programma a base di plaid, tisana e ultima puntata de L’ispettore Coliandro in tv oppure assaggiare un altro boccone di Bologna autentica – non la copia un po’ sbiadita del capoluogo emiliano presentata sul piccolo schermo dalla creatura di Carlo Lucarelli e dei Manetti Bros – fare un salto al Locomotiv e assistere al concerto dei Clamat. Vado di Google e leggo: “Clamat è un animale raro, figlio dell’alcool, amante delle prodezze, dei vecchi che giocano a carte nei bar e delle storie sui pirati”. Accidenti, come si fa a non andare a supportare una band che si presenta così? Anch’io sono un amante delle prodezze, dei vecchi che giocano a carte nei bar (e delle loro prodezze briscolistiche) e delle storie sui pirati. Figlio dell’alcool non so, ma certe cose è sempre meglio non saperle. Ok – mi dico – è qui vicino, si sta al caldo, ci sono birra, ragazze e buona musica. Come stare a casa, insomma. Con in più le ragazze.
La scelta è presa: faccio il mio ingresso nel locale quasi in contemporanea con il gruppo d’apertura, i Flaming Gene & His Tonic, duo chitarra e contrabbasso tutto romagnolo formato da Eugenio Pritelli a.k.a. FlaminGene e Nicolò Fiori a.k.a. the Tonic, già membri dei Rock ‘n’ Roll Kamikazes di Andy MacFarlane. Con un repertorio che mescola sapientemente brani rockabilly e rhythm & blues, inframmezzati dagli interventi di un istrionico Eugenio Pritelli, i Flaming Gene & His Tonic riscaldano un locale che si riempie pigramente ma costantemente, fino alla fine della loro esibizione. Nella performance, durata oltre mezz’ora, trova posto anche un’inaspettata versione r’n’b di Tanti auguri a te, dedicata ad un’amica in sala. Dall’inizio alla fine si balla e ci si diverte, imbeccati da riff semplici ma efficaci, dai conseguenti assoli e dalle vibrazioni ipnotiche del basso, il caldo sound dei Fifties.
Dopo diversi minuti di attesa si riapre il sipario, è il momento dei Clamat: nati a Bologna esattamente un anno fa, tra applausi ed urla prendono posto sul palco Simone “Zimmy” Martini (Johnny Clash, Lucky Strikes, Generation Mongoloid), al basso, Alessandro Piretti (Rocca & The Swampfires, La Mafia Del Baile) alla batteria, Guglielmo Pagnozzi (Voodoo Sound Club, Laboratorio Sociale Afrobeat, Corleone) al sax e Michele Giuliani (ve lo devo davvero ricordare?) alla voce e chitarra elettrica. Fresca d’uscita del primo EP autoprodotto The Clamat Collection Of Wonder, la band felsinea gioca nettamente in casa, gli scambi col pubblico non si contano neanche, mi sembra quasi di essermi imbucato clandestinamente in una grande festa tra amici. Dalle prime note ci si accalca sotto al palco, il volume tramortisce: “Stasera finiremo per amarci tutti quanti” annuncia Michele Giuliani, e dopo un paio di canzoni non stento a crederci. Passa poco e Alessandro Piretti si toglie la maglietta e continua a suonare a petto nudo, tanto siamo in famiglia. Nelle orecchie tuonano i loro brani, da Calypso Blues a Wunder Maria, da Angus a Long John Silver, nello stomaco ne si avvertono le distorsioni, nel petto si intuisce la gioia delle note di essere finalmente libere, suonate su un vero palco e con la testa si percepisce l’importanza dell’evento per le persone in sala, per quello che più che un concerto è una celebrazione di un’amicizia.
Sì, è stato come stare a casa, insomma. Con in più le ragazze. E la pregevole musica dei Clamat.
Fabio Fontanaro
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