Il 30 Novembre 2015 è uscito, per Bomba Dischi/Goodfellas, Mainstream, il nuovo album di Calcutta.
Ve ne siete accorti?
Mettendo da parte l’inevitabile ironia sull’enorme riscontro mediatico che ha avuto la promozione dell’album, vi sottolineo qualche nota tecnica. L’album è stato prodotto da Calcutta e Marta Venturini presso lo Studio Nero di Roma con la supervisione artistica di Niccolò Contessa (I Cani), che già dovrebbe rappresentare una garanzia di successo.
Come vi dicevo sopra, il ragazzo ci sa sicuramente fare in tema di promozione, ma questo non basta per ottenere questi numeri. Per avere una diffusione virale, come quella che stiamo osservando in questi giorni, un contenuto di base ci dev’essere per forza. Così, incuriosita dal fenomeno, mi sono messa a cercare tra le sue canzoni quel qualcosa, che qualcuno oserebbe definire come il segreto del suo successo.
Dopo vari ascolti è evidente che i testi di Calcutta sono dei veri catalizzatori dell’ attuale disagio giovanile, quello che può riscontrarsi nella fascia d’età che va dai 20 ai 30, insomma in quella fascia di pubblico che compra dischi e che va ai concerti. Nei testi ci troviamo quelle frasi a volte ironiche, a volte un po’ meno, di cui tutti abbiamo bisogno per esprimerci al meglio sui nostri social; non a caso di questi tempi non c’è pagina che non abbia un riferimento a qualche brano di Mainstream. Quelle frasi in fondo sono tutto quello che avevamo voglia di dire, senza trovare mai le parole giuste.
Non a caso l’artista si presenta così: Calcutta nasce e vive fra Latina e Roma. Dal 2011 suona in lungo e in largo per la penisola, nei locali, negli scantinati e a casa della gente. Canta di gite pontine, amori veri o immaginati e piccole cose che saranno capitate anche a voi.
Adesso cominciamo ad entrare nel vivo dell’album, un lavoro che riesce a portare il cantautorato laziale verso lidi pressoché sconosciuti, muovendosi nel mezzo tra suono acustico ed elettronico, in quel mezzo suono tanto amato dall’estetica lo-fi.
Mainstream presenta infatti la giusta dose di cantautorato, mixata sapientemente con i generi moderni e con quei testi di cui vi parlavo sopra. Insomma, contiene tutti gli ingredienti per andare lontano. Sembra riallacciarsi al nuovo filone elettronico-cantautorale, ma restando prepotentemente ancorato alle solide radici nostrane (e questo è un vanto più che un demerito). La forza è però più nei testi che nelle melodie, dove in pochi casi possiamo trovare qualcosa di originale a livello compositivo, eccetto nei due intermezzi, che a mio avviso rappresentano la vera svolta sonora dell’album.
Ascoltiamolo insieme!
L’apertura è affidata a Gaetano, brano al pianoforte in stile ballad inglese, con quella svastica in centro a Bologna, che lo riporta subito a noi. Il classico pezzo da ascoltare sventolando un accendino acceso…ah no, ormai si usa il led del cellulare. Scusate!
La seconda traccia, Cosa mi manchi a fare, è diventata in breve un inno generazionale! E’ uno di quei brani da ascoltare e cantare a squarciagola, vera medicina per superare gli amori finiti…male! In fondo si deve soltanto imparare a camminare, di nuovo!
Poco dopo giunge l’ Intermezzo 2, che precede l’Intermezzo 1, secondo una logica inafferrabile e beffarda. Questo brano suona dal sapore elettronico-orientale, sembra un divertissement dell’artista, o forse di Contessa, volto a stemperare un po’ i generi nello scorrere dell’album. Qui si sente fortemente l’accostamento all’estetica lo-fi, presente a tratti anche nel synth di altri pezzi, che gli regala un’aura malinconica ed immaginifica. Vera innovazione del disco, come vi anticipavo.
Andiamo a Milano, con la sua malinconia, con i suoi giorni da buttare. E’ un brano che ricorda molto i suoni dei cantautori italiani degli anni ’80, soprattutto nella sua struttura finale. Un brano che sembra venire dal passato, semplice, ma non immediato, in cui si possono ritrovare gli occhi malinconici di tutti coloro che vivono a Milano per studiare, per lavorare, quegli occhi che portano con sè la morsa al cuore della città, perchè in fondo Milano è una corsia di un ospedale.
Limonata torna a modernizzarsi nei suoni, mentre i testi ci trascinano in una malinconica nostalgia. Questa parte centrale dell’album si fa infatti più triste ed intima. Voglia di tornare bambini, allontanarsi da gente che non ci va giù, quella sensazione di non farcela più, in un mondo borghese che sta stretto.
Frosinone parla di una notte, di una pizza, di un paio di errori, di una corsa nella quale si rischia di perdere qualche pezzo di sè. Il più bello dei brani cantati, la cui chiave sta in quel ti giuro che torno a casa e non so di chi.
Intermezzo 1 ha dei suoni più “spaziali”, sarebbe perfetto come colonna sonora di qualche film di fantascienza, altro bel divertimento in musica, che potrebbe essere un bel punto di partenza per il futuro artistico di Calcutta.
Del Verde ricorda molto le sonorità del supervisore del disco, chi non ha sentito i Cani in quel Ci vorrebbe una notte una notte una notte? 
Dal Verme, in cui si sente lo strisciare dei suoni elettro numbers e dei beat di Mai Mai Mai, è subito magia! Uno stacco netto col resto, un’evoluzione dal passato al futuro in quei 3:24 di puro futurismo musicale.
Un ritorno alle calde sonorità di Calcutta lo troviamo con l’ascolto dell’ultimo pezzo del disco, Le Barche, con cui l’artista ci fa fare un ultimo bagno negli anni ’80.
Mainstream è un album che si ascolta con piacere, Calcutta un artista da cui adesso ci aspettiamo molto, molto di più.
Egle Taccia
 
 
 
 
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