Noi di UrbanWeek siamo molto contenti di ospitare nel nostro blog i Loveless Whizzikid, band catanese formata da Davide Iannitti (chitarra e voce), Enrico Valenti (batteria) e Gabriele Timpanaro (basso) e che, già da qualche anno, è riuscita a raccogliere consensi positivi sia da parte del pubblico che della critica. Li abbiamo incontrati in occasione dell’uscita del loro nuovo EP, Name improvements for everyday stuff, e per farci raccontare meglio la loro storia artistica.
Tra le band degli ultimi anni cresciute all’ombra del vulcano più bello del mondo (sì, ovviamente sono di parte!), siete tra quelle più interessanti: quando nascono i Loveless Whizzikid e cosa vi ha convinto a mettere su una famiglia musicale?
DAVIDE: Con Enrico ci siamo ritrovati compagni di banco al primo giorno di liceo. In qualche modo abbiamo da subito cominciato a suonare tutto quello che avevamo intorno. Dopo poco tempo si è aggiunto a noi un quindicenne col cappellino che rispondeva al nome di Gabriele. La “famiglia” è venuta su spontaneamente, e come ogni vera famiglia alterniamo i gran bei momenti insieme a quelli in cui arriviamo a un passo da una sparatoria!
ENRICO: Quando si è giovani si fanno diverse cose per i motivi più disparati, diciamo che è stato un incidente di percorso di cui eravamo contenti
Ho letto che Name improvements for everyday stuff ha avuto una gestazione durata ben due anni…
DAVIDE: Eeeeeh già! Siamo entrati in sala a settembre 2013. Abbiamo registrato il 95% delle parti strumentali, ma non avevamo ancora tutti i testi. Ho cominciato a mixare il materiale e a combattere con numerosi problemi scaturiti dalla mia inesperienza, ed è passato un anno. A settembre 2014 abbiamo aggiunto le voci di due brani, ma ne mancavano ancora tre – non avevo ancora i testi. Andando avanti, col tempo, ho rifinito maniacalmente i suoni e i mix per come, secondo me, dovevano essere e una serie di circostanze, che in parte hanno del miracoloso, hanno scatenato la scrittura dei testi mancanti. Erano quelli, era giusto aspettare. A quel punto, nel giro di pochissimo tempo (in proporzione) abbiamo completato le registrazioni ed il missaggio. Naturalmente ad un passo dalla fine mi si è sfasciato il PC, ma per maggio 2015 abbiamo finalmente chiuso tutto. Dite voi se n’è valsa la pena!
ENRICO: Alla fine il disco è stato registrato e mixato da noi, sicché per tutto quello che ha riguardato i suoni, non avendo molta esperienza e non potendo essere sempre presenti, ci siamo presi più tempo di quello che immaginavamo.
We were only trying to sleep, il vostro esordio datato 2013, è stato registrato e mixato da Sacha Tilotta e masterizzato da Bob Weston (SHELLAC)…non male per iniziare! Come è nata questa collaborazione?
DAVIDE: Ho conosciuto Sacha quando avevo ancora 16-17 anni nel mitico negozio di dischi dei suoi, che ci manca davvero tanto. Nel 2010, intorno alle vacanze di Pasqua, abbiamo deciso, praticamente da un giorno all’altro, di andare a registrare il primo disco. Adesso Sacha è per me un grandissimo amico, e suoniamo anche insieme nei mitici Stash Raiders, un collettivo improbabile ma riuscitissimo che vi invito a cercare e ad ascoltare! Sempre grazie alle eccelse conoscenze di Sacha abbiamo contattato il Chicago Mastering Service ed il grande Bob ha così impreziosito il nostro primo album.
ENRICO: Io in quel periodo ero bersagliere fuori città, sicché ho potuto seguire poco e niente lo svolgersi delle cose.
Chi ha contribuito, invece, alla realizzazione del nuovo EP?
DAVIDE: Ci sono state diverse persone che ci hanno supportato ed incoraggiato già dai primi ascolti grezzi, ma avevamo deciso di chiuderci in sala da soli, senza “mediazioni” esterne, e così è stato. Dino Gigliuto, che ha costruito con le sue mani lo studio in cui il disco è stato registrato, che di certo ne caratterizza il sound (e che da poco ho orgogliosamente “ereditato”) ha aggiunto alcune voci, ma questa è stata l’unica vera partecipazione esterna, a parte Matthew Barnhart del Chicago Mastering Service che ha fatto un egregio lavoro e ha fatto suonare il disco veramente bene.
ENRICO: Sicuramente per me tutte le esperienze precedenti sia musicali che prettamente umane (Matteo Balcone e Maurilio Milone in primis tra quelle musicali).
Di cosa parlano le nuove canzoni? Rispetto al primo disco, cosa è cambiato?
DAVIDE: Ho sempre molto, molto imbarazzo a parlare dei miei testi, ma, al contempo, pretendo che siano (quasi) perfetti prima di chiudere i brani – anche per questo ci sono voluti due anni… quindi sappiate che per me è un grande sforzo! Il primo disco aveva un filo conduttore “onirico” che qui è presente solo in “Fit for a windy place”, orribilmente sfigurato. “Trigger” è un brano fieramente post-adolescenziale, e forse è quello più legato al passato, mentre “Home-made messiah” è un testo “terrificante”, nel senso che fa paura pure a me, perché parte da una disavventura di band che poteva tecnicamente ammazzarci tutti e spiega perché potremmo innescare la famosa sparatoria di cui sopra – analizzando la mia componente in tutto questo. Infine “Talking to strangers” e “Toyhouse on greenhill”, gli ultimi due testi composti, parlano rispettivamente di cosa significhi trovare la persona con cui vivere almeno una decina di vite e viverci insieme. Però sono molto contento che in questo disco non sia mai utilizzata la parola “love”.
Nella vostra pagina Facebook, tra le informazioni relative alla band, alla voce “genere” c’è scritto: lo fi, indie, alternative rock. Quali sono i vostri riferimenti musicali?
DAVIDE: Sparo in ordine sparso: My Bloody Valentine, Fugazi, Yo La Tengo, Pavement, Guided By Voices, Dinosaur Jr., Slint, Fiery Furnaces, Polvo, Feelies e gli altri 120 che sto dimenticando. Credo anche che siano stati molto importanti per questo disco le influenze della musica classica e delle musichette da videogioco dei primi anni ’90. E poi nessuno sa ancora su quale pianeta Enrico abbia sentito qualcosa di simile al giro di batteria di “Home-made messiah”.
ENRICO: Per quello che mi riguarda non vado per generi, i miei riferimenti infatti sono i batteristi che mi piacciono e che credo mi possano dare qualcosa.
Avete sempre e solo composto in inglese?
DAVIDE: Sì. Il rock in italiano secondo me semplicemente non funziona. Credo che sia principalmente un problema di lunghezza sillabica e suoni. Poi probabilmente mi sentirei abbastanza in imbarazzo ad urlare roba sapendo che tutti la capiscono e mi rendo anche conto di non saper né cantare né scrivere in italiano, non so proprio come si fa…
I lettori di UrbanWeek sono curiosi di sapere se suonerete in giro per l’Italia!
DAVIDE: Non posso ancora annunciare date, purtroppo, ma presenteremo il disco a Catania verso dicembre, e dovremmo superare lo stretto a gennaio per girare il più possibile l’Italia (si spera). Alla fine suonare in giro è l’unico vero motivo per cui esiste tutto questo.
ENRICO: Ci si sta lavorando, sarebbe ora sia in Italia che fuori. Seguiteci sulla nostra pagina FB per avere news a riguardo
Laura De Angelis
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