Endkadenz Vol. 2 è l’ultima opera monumentale del noto trio bergamasco, Verdena, paladini e rappresentanti del rock alternativo italiano d’eccellenza. E se nel ’99 se ne erano usciti con canzoni da tre accordi distorti e ritornelloni sulla scia di Nevermind, quasi vent’anni dopo Alberto Ferrari è un altro artista, cupo e nevrotico, inconfondibile. Sarà forse il suo nuovo amore per gli eccessi e per le ridondanze strumentali che l’ha così tanto allontanato dalla quell’aura grunge, che sempre l’ha contraddistinto.
Enkadenz Vol. 2 è il gemello nero e introspettivo del primo volume, uscito per scelte discografiche qualche mese prima. Neanche un singolo per questo nuovo e ultimo lavoro. In Endkadenz Vol. 1, se Un po’ esageriNevischio, Derek deliziavano l’ascoltatore con sonorità anni ’90 e ritornelli power pop, in Endkadenz Vol. 2 bisogna piuttosto prepararsi, allacciare le cinture e fare un salto nel vuoto, un buffet di musica eterogenea. E si va da Battisti ai Melvins, un po’ di Beatles non mancano mai, e poi ancora suoni acidi di fuzz, industrial, stoner. Quanta carne al fuoco! Il rischio è l’indigestione, l’incomprensione. L’altra faccia della medaglia è l’entusiasmo per un’opera così creativa, sperimentale.
Da Wow, capostipite enorme di questo nuovo viaggio artistico del trio, l’atmosfera è rimasta invariata: qualche brano più cupo, altri più allegri, ma la pasta e l’identità sonora sono quelli, un pianoforte in evidenza, chitarre fuzzate, e una voce marginale, usata più come se fosse uno strumento, in rigoroso italiano, ma più incomprensibile che mai. Una voce che non veicola messaggi, ma piuttosto immagini, emozioni. Davanti a tale minestrone, potrebbero sicuramente mancare i cari amati Verdena di Luna, Valvonauta, Muori delay, Ultranoia, Centrifuga, e dell’indimenticabile Ovunque. Solo a citare alcuni capolavori viene la lacrimuccia nostalgica, forse perché avevano un testo dalla portata quotidiana, forse per le melodie pop grunge e i ritornelloni disperati, dall’odore adolescenziale. Ma i Verdena sono cambiati. Cè solo da capire se è una maschera forzata per innovarsi vent’anni dopo, o se si stanno divertendo, con sperimentazioni di addetti ai lavori. Certo che con un pubblico da mainstream così assicurato, sicuramente la bonaria e affascinante strafottenza del trio ha avuto modo di esprimersi appieno, e allora perchè non far baciare noise, percussioni, elettronica, fuzz e dolcezza all’italiana, melodico cantautorato tradizionale?
Lo stoner di Cannibale, l’industrial di Colle Immane, un saltellante pianoforte di Dymo, riproposto limpido in Nera Visione, la spaziale ed elettronica Natale con Ozzy, il folk percussivo ed egocentrico di Identikit, i Melvins acidissimi di Caleido, la battistiana e conclusiva Waltz del bounty, rappresentano le ennesime gesta eroiche del trio o hanno tirato un po’ troppo la corda? Non c’è bisogno di dare una risposta. Basta rendersi conto che la domanda esiste e nasce spontanea. La risposta la darà il gusto e la sensibiltà personale. I Verdena, da dipinti concreti, sono passati alla pittura astratta. Chissà se, finite le sfumature di colore, troveranno un modo semplice per uscirne e ci diranno ancora con corde vocali esauste che niente conta in fondo, crolla.
Marco Apri
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