C’è una cosa che penso da sempre: la musica è una cosa seria. E lo è davvero per me. Da musicista o da blogger, il punto fermo resta la serietà di una professione che ha a che fare con l’arte e che si rivolge al “popolo”.
Poi, quasi come smentita a quello che ho appena affermato mi arriva da recensire il nuovo disco dei Kutso, Musica per persone sensibili, e le mie presunte certezze barcollano. Barcollano, ma non cadono.
Avevo sentito di una rock band un po’ stramba, dal nome molto strambo con una canzone tantissimo stramba, che aveva ottenuto il secondo posto fra le giovani proposte dell’ultimo Sanremo.
Ho scoperto successivamente che si trattava della band romana che ha aperto i concerti di Negramaro, Caparezza e Daniele Silvestri, che utilizza video surreali, colorati e “seriamente divertenti” per promuovere le canzoni.
Ho ascoltato questo disco che rappresenta una specie di contenitore rock dove frullare insieme teatro canzone, Kiss, Elio e le storie tese, Foo Fighters, Ivan Graziani e i Darkness.
E’ prodotto insieme ad Alex Britti, che evidentemente apprezza la follia di Matteo Gabbianelli, l’istrionico frontman, e dei soci.
“L’amore è”, per esempio, racchiude reggae, rap e teatro canzone, brano che vede la partecipazione di Adriano Bono, ex Radici nel Cemento e Piotta.
Hard rock, cori e groove in tutti i brani, come “Call center” e “Bevo te”, in cui l’influenza del punk duro americano prende la direzione del dissacrante gusto del “cazzeggio in musica”.
Il sesso, visto sotto la lente dell’irriverenza, è il tema di “Se Copuliamo”, mentre “Io Rosico” accentua, se è possibile ancora di più, la tendenza ad usare una linea rockettara all’interno di situazioni stravaganti.
C’è spazio pure per una ballad d’amore, “Triste”, che vede Roberto Angelini come ospite d’eccezione.
Il nonsense, quello caro a Rino Gaetano, è il vero filo conduttore dell’album e, a detta degli stessi artisti romani, il loro stile espressivo, la loro cifra stilistica.
Un nonsense che sposa l’hard rock. Perché i Kutso sono una rock band vera. I pezzi migliori sono anche quelli più rockettari e punkettari, come “Ma quale Rockstar” e “Vengo in pace”, in cui riff elettrici molto forti duellano incessantemente con la voce di Gabbianelli, che scimmiottando un po’ Manuel Agnelli, un po’ Ivan Graziani, trova una sua dimensione originalissima che trasforma l’atmosfera surreale in una dimensione “iperreale”, o comunque verosimilmente reale.
“Elisa”, il brano sanremese, effettivamente racchiude tutte le caratteristiche dei pezzi di tutto l’intero album, rese però in ancora più “seriamente divertenti”.
E proprio “Elisa” ha dimostrato una cosa: che un contesto serioso, legato al bel canto e alla tradizione, può accogliere la natura più irriverente della musica, fatta di parolacce, doppi sensi, versi slegati e sintassi discutibile.
I diretti interessati rifiutano comunque l’etichetta di musica demenziale e il paragone con Elio e le Storie Tese, ribadendo a gran voce che il loro stile è nonsense, cioè qualcosa che non ha senso rispetto al mondo abituale, qualcosa che non esiste o comunque difficilmente esistente. Qualcosa che magari non tutti osservano, che ignorano e fanno passare insieme a tutti i flussi esistenziali consapevoli.
Non me ne sono accorto, ma con questa scusa del nonsense, con questa recensione dei burloni dei Kutso, ho capito (di nuovo) che la musica è una cosa seria. Anche quando non lo è.
Fabrizio De Angelis
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