“Francesco De Gregori possiede il dono dell’incisività e della forza evocativa della frase”. Si apriva così il primo libro letto sulla carriera del cantautore romano. Questo passo appena citato mi ha sempre fatto riflettere, perchè l’autore del libro ha perfettamente ritratto la figura di Francesco De Gregori, uno degli ultimi profeti della musica italiana.
Cantautore “impegnato”degli ultimi decenni del ‘900, artista libero, sorprendente e a volte spiazzante del 2000.
Gli ultimi lavori discografici, se non reggono il confronto con i vari Rimmel, Bufalo Bill e Generale, incidono per il tentativo di sperimentare suoni e atmosfere più anglosassoni, dal folk-rock al blues e al country. L’America appunto. La terra di Bob Dylan, divinità che ha sconvolto la musica mondiale e la cultura del secolo scorso.
L’amore di Francesco De Gregori per Dylan non è mai stato un mistero, ma con De Gregori canta Dylan – Amore e Furto, uscito lo scorso 30 ottobre, l’artista romano interpreta 11 canzoni del menestrello di Duluth, prese dal suo reportorio “minore”, tradotte in alcuni casi letteralmente, arrangiati con grande stile, del resto come ormai ci ha abituato negli ultimi dischi.
“Un angioletto come te”, traduzione di “Sweetheart like you”, ha anticipato l’uscita del disco, ottenendo un buon successo, grazie alla dolcezza delle parole inserite in un contesto meno morbido, fatto di assoli blues e hammond, mantenendosi però aperta la strada del pop.
Il disco è proprio un concentrato di atmosfere tipiche americane, di stampo folk e blues, amalgamati con tastiere e talvolta mandoloncelli (“Non dirle che non è così”).
L’accusa sociale e politica è molto presente nel disco, con blues ballad come “Servire qualcuno” e “Mondo politico”, testi diretti e ruvidi e parole che sembrano “sputate” per l’amarezza.
“Via della povertà”, già tradotta con Fabrizio De Andrè nel 1974, viene riproposta con grintosi riff elettrici che dialogano con una solista acustica e una batteria che scandisce il tempo della storia, una strada affollata di personaggi storici e presi dalla letteratura e dalla cultura, senza nessun legame e nessuna logica, ma che grazie alla narrazione del timbro graffiante di De Gregori diventano saldati e perfettamente coerenti con la fantasia dylaniana.
Se “Come il giorno” mette la freccia verso il pop-rock, la breve “Acido seminterrato” torna a parlare il linguaggio del folk e del blues, con una storia tipicamente a stelle e a strisce.
“Non è buio ancora” sembra continuare il discorso di “Non dirle che non è così”, con toni più maliconici e intimisti.
“Una serie di sogni”mette al centro la dimensione onirica, aperta dalle chitarre e dagli archi, anche se, come di consueto, si tratta di sogni confusi che sfiorano in alcuni casi gli incubi.
“Tweedle dum & Tweedle dee” e “Dignità” chiudono il disco. La prima è un divertissement folk, molto solare e fresco, l’ultimo pezzo invece, “Dignità”, scava nel profondo dell’animo umano, con chitarre, pianoforte e tastiere a fare da pala.
“De Gregori canta Dylan” è senza dubbio un atto d’amore del cantautore romano verso il poeta del rock. Di quegli amori ispirati, che rendono tutto facile, anche le cose difficili. Come il “furto”, in questo caso d’autore e in grande stile.
Fabrizio De Angelis
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